Il sequestro dei collegiali di Terracina

Era il 23 gennaio del 1821, ormai la sera era calata da oltre un’ora e le strade di Terracina erano buie e deserte. Lungo la strada, che dalla chiesa di San Domenico conduce in salita verso il Convento di San Francesco, ritornava Don Domenico Cerilli, vice rettore del collegio giovanile.

    Ormai era quasi arrivato al bivio dove la strada, che continua verso il cimitero, s’incontra con l’altra che ridiscende verso San Francesco, quando, nelle tenebre vide profilarsi un folla d’ombre minacciose: … I briganti!

    In quella trista masnada il buon prete ne ravvisò qualcuno che due mesi prima era stato ospite nel convento stesso per trattare la loro resa con il rettore Don Luigi Locatelli. Questi da una settimana era partito per Roma per riferire alla Santa Sede dell’avvenuta “redenzione” di quelle anime ipocrite. Ora  però, a quell’ora, non erano certo lì per una visita penitenziale, anzi questa volta c’era con loro anche l’irriducibile capobanda Alessandro Massaroni.

    Il terrorizzato Cerilli viene fatto prigioniero e, con il coltello alla gola, condotto sotto il portone del convento: gli viene ordinato di dare la voce al guardiano perché apra.

    In seguito si scoprirà che il portinaio, Luigi Fusi, era d’accordo con i briganti e, processato, sarà fucilato a Terracina in Piazza della Marina.

    I briganti entrano, molti di loro conoscono la disposizione dei locali, e velocemente radunano tutti gli ospiti del convento e si avviano indisturbati verso la Via del Cimitero.

    Il Colagiovanni ci da l’elenco preciso dei sequestrati, oltre il Vice rettore: Gaetano Cerilli, fratello del vice rettore, anni 12; Angelo Capponi, pure lui di San Felice, anni 14. Erano invece di Terracina: Pietro D’Isa, anni 16: Giuseppe Mariotti, canonico, prefetto, anni 24; Giovanni Assorati, anni 10; Luigi Prina, anni 9; Luigi Balzani, anni 13; Angelo Berti, anni 13; Luigi Cenciarelli, anni 13; Giovanni Battista Venditti, di età non indicata. Erano di Sonnino: i fratelli Giuseppe e Luigi Cicconi, di 19 e 21 anni. Di Alatri era Pietro Latini, maestro di grammatica, anni 24. Di Civitavova era Pietro Mazzanti, maestro di lettura, anni 18. Di Priverno: Filippo Sargenti, prefetto, anni 24. Giovanni Battista Loffredi, prefetto, anni 22. Di Roma: i fratelli Andrea e Carlo Poggi, camerieri, rispettivamente di 24 e 19 anni. Di Prossedi: Giuseppe Papi, anni 17. Di Terelle, in regno: Evangelista Grossi, anni 21. Di Maenza: Tommaso Fasani. Anni 17. Di Bassiano: Giuseppe De Filippis, anni 19. Il portinaio Luigi Fusi era originario di Bologna ed aveva 30 anni.   

    La strada che conduce verso i monti passa nelle vicinanze del cimitero, lì, presso la chiesa allora occupata dai Padri Passionisti, c’è un piccolo presidio di carabinieri pontifici. Poco più avanti la numerosa compagnia di briganti ed ostaggi si imbatte in un carabiniere (si chiamava Ercolano Ercolani) che torna da una perlustrazione in montagna: forse è il militare a sparare per prima ed i briganti a farsi scudo con il corpo di Don Domenico, forse sono i briganti a sparare per primi il risultato è che il carabiniere ed il prete restano a terra morti. Nella confusione che ne consegue, approfittando del buio e della macchia, quattro ostaggi riescono a fuggire (don Pietro Latini, Andrea Poggi, Filippo Sargenti e Giovanni Battista Venditti).

    Gli altri 20, tra cui Evangelista Grossi che è ferito, infreddoliti e spaventati, vengono condotti in montagna dai briganti.

    I quattro scampati danno l’allarme in città, suonano le campane a martello, cinquanta persone si armano per dar forza ai militari , ma i parenti degli ostaggi li fermano: vogliono che si tratti.

    Mentre si recuperano i corpi dei due uccisi e si inviano staffette ai famigliari degli ostaggi nei paesi vicini, scoppiano le polemiche; sono sotto accusa: le forze dell’ordine ed il governo per la loro incapacità, i preti che hanno creduto al pentimento dei briganti per la loro dabbenaggine.

   Il Vescovo Manasse è affranto e progetta raccolte di denaro per il riscatto, Don Locatelli, informato a Roma, chiede aiuto al Santo Padre.

    Il paese è sveglio e tutto in piazza quando, verso mezzanotte, arriva il portinaio rilasciato dai briganti con le loro condizioni: vogliono cibo, vino, tabacco e munizioni, per il momento. Faranno sapere a breve la somma del riscatto; intanto, si diano da fare perché ci vorrà molto denaro, pena un massacro.

        La mattina dopo vengono rilasciati altri due prigionieri: il nullatenente canonico G. Mariotti e Giuseppe Cicconi, dato che il fratello Luigi, rimasto nelle mani dei briganti, avrebbe, comunque, giustificato la richiesta del riscatto. I rilasciati portano anche biglietti scritti dai figli prigionieri alle famiglie: Per carità! Non facciano uscire la truppa e preparino i soldi, somme che variavano dai 1,000 ai 2.000 scudi per ognuno. Solo l’Assorati non chiede alla famiglia soldi, ma nella lettera implora il padre, in cambio del suo rilascio, di inviare di nascosto una congrua quantità di polvere da sparo e di palle da fucile.

    Il giorno dopo vennero rilasciati ancora due ostaggi: Giovanni Assorati e Luigi Prina, di 10 e 9 anni. Ci fu chi volle vedere nel rilascio dei  più giovani ostaggi un atto di umanità dei briganti, ma ci fu anche chi in paese mormorava che le due famiglie di nascosto delle altre avevano scelto la via della trattativa separata ed avevano inviato soldi, cibo e munizioni. Sul rifornire i briganti di armi, infatti, c’era chiusura totale da parte della Segreteria di Stato.

   

    Passa il tempo e la situazione peggiora. Tutti i parenti, anche quelli degli altri paesi sono a Terracina ed indirizzano tutta la loro rabbia verso il Vescovo che pur cerca disperatamente di accumulare soldi ed oggetti preziosi, dando per primo l’esempio e si priva anche della sua croce d’oro. Tutti ce l’anno con lui dal Governo ai parenti, alla gente comune che lo accusa di aver dato mano libera al Locatelli nella trattativa con i briganti. C’è perfino chi minaccia apertamente di morte il Vescovo che si tappa in vescovado e chiede un picchetto armato davanti al suo portone. Aspetta aiuto e conforto almeno da Roma a cui ha chiesto anche denaro per contribuire al riscatto.

 

    Ed ecco la risposta che il 25 gennaio arriva da Roma: “ Sarebbe troppo umiliante per il Governo  ecc. ecc.” Si promette comunque di prendere accordi anche con la Corte di Napoli per “salvare gl’infelici ricattati. Giova sperare che il Signore benedica queste misure…”, ma agli scudi chiesti nessun accenno.

    “Perché il collegio non era stato presidiato?‘ E inutile dire che tra le autorità (civile, religiosa e militare) di Terracina era cominciato lo scaricabarile delle responsabilità.

     Tuttavia, anche se il Governo ufficialmente si era tirato fuori dell’affare, in segreto (ma era un segreto di Pulcinella) aveva inviato a Terracina due imprenditori (i fratelli Mencacci, appaltatori della tassa sul macinato) per trattare la somma del riscatto. Massaroni viene a saperlo e gioca al rialzo.

     Intanto, fino al giorno 26 gennaio, si era riusciti, a Terracina, a mettere insieme circa 2.000 scudi, somma, a quei tempi, pari al valore di una mandria di 150 vacche. Era solo un segno di buona volontà, ancora molto lontano dalla somma di richiesta. Tanto e vero che i briganti rilasciano in cambio solo due altri ostaggi: Pietro Mazzanti e Gaetano Cerilli.

    Intanto la taglia su Massaroni, vivo o morto, sale a 3.000 scudi, ma nel contempo si cerca di tenerlo buono interrompendo l’abbattimento delle case di Vallecorsa appartenenti al capobrigante e ad altri suoi accoliti.

   

    Le trattative continuano, ma le pretese non calano, almeno quelle su tre ostaggi; Papi, D’Ida e Fasani. Per gli altri, Massaroni si “accontenta” di 500 scudi a testa:

    La mattina del 30 gennaio parte una nuova spedizione. Reca altri 4.000 scudi, tra denaro contante ed oggetti preziosi, confezionati in sacchetti con su scritto il nome dell’ostaggio che dovrebbe essere rilasciato. I briganti s’infuriano: vogliono l’intero malloppo e non sono disposti a fare sconti, passano ad alcune sevizie sui prigionieri e, soltanto durante la notte, liberano altri otto ostaggi.

   Nelle loro mani restano: Papi, D’Isa e Fasani: le famiglie ed i parenti si sono dissanguati, ma i Briganti sembrano accanirsi in particolare verso questi tre per ragioni non del tutto chiare, a parte che per il Papi. Questi, infatti, era figlio del gonfaloniere di Prossedi, reo di aver sterminato due bande di briganti e la famiglia di Antonio Vittori, uno dei più sanguinari membri della banba Massaroni. ‘E probabile che fin dall’inizio Massaroni abbia promesso al Vittori di portare a termine la sua vendetta personale dopo aver spremuto dalla famiglia l’intero riscatto.

    A completare le richieste, dopo un’ultima disperata colletta, il 31 gennaio parte da Terracina l’ultima missione. Incontrano la banda a Valle Viola, sopra Monte San Biagio, consegnano gli ultimi scudi e sperano nella consegna dei tre ragazzi.

   Ma a questo punto la tragedia ha il suo epilogo. Qualche vedetta nota un movimento di truppe a piedi di Monte San Biagio: si grida al tradimento, prima di disperdersi Massaroni da l’ordine di scannare gli ostaggi legati agli alberi. Vittori non aspettava altro per colpire a pugnalate il Papi,  qualcun altro, o lo stesso Vittori, uccide il D’Isa, mentre, nella concitazione della fuga, inspiegabilmente il Fasani resta vivo. Ma forse tutto era stato deciso già prima.

   Il giorno dopo il popolo di Monte San Biagio uscì per recuperare i cadaveri che, lavati, ricomposti e rivestiti con veste talare e cotta e riconsegnati alla pietà dei Parenti.

    Giuseppe Papi aveva 17 anni, Pietro D’Isa ne aveva 16.