Centuriazione romana e pratiche agricole

 

 “Eodem anno Anxur trecenti in coloniam missi sunt; bina iugera agri acceperunt.” (Livio VIII, 21)
In quello stesso anno
(era l’anno corrispondente al 329 a.C.) furono inviati ad Anxur trecento coloni; essi ricevettero due iugeri di terra a testa.”
Era questo il prezzo che i Volsci di Anxur dovettero pagare ai Romani vincitori. E , a ben riflettere, in fondo, agli antichi abitatori di Terracina era andata abbastanza bene. Certo, i terreni sottratti agli antichi proprietari saranno stati i migliori tra quelli che si trovavano nella zona che ancor oggi si chiama “La Valle”, ma rappresentavano “solo” in terzo dell’intero territorio pianeggiante sottoposto a centuriazione: 150 su i 450 ettari disponibili! (F. 1)

  Come avveniva la centuriazione. Gli agrimensori romani lavoravano in squadra usando uno strumento chiamato groma.
In un punto prescelto, che diventava il punto di incontro tra decumanus e kardo maximus, si poneva un cippo e la prima  groma. Gli altri agronomi si allineavano con lo stesso strumento ponendosi alla distanza di 240 piedi (= 71 metri attuali) e così di seguito, fino a tracciare un rettifilo di 240 x 10 = 2.400 piedi, pari a 710 metri.
Ottenuto il rettifilo principale, si tracciavano le linee perpendicolari fino a formare una serie di quadrati di 710 metri di lato (pari a poco più di 50 ettari).

Era questa l’unità terriera di base che, suddivisa a sua volta in cento parti dava nome alla centuriazione.
Lungo il perimetro dell’unità venivano tracciate le vie principali e gli stradelli di servizio.
Nel caso di Terracina sul decumano verrà a sovrapporsi, di lì a poco, il tracciato stesso dell’Appia consolare.Ognuna di queste particelle di terreno era pari a m.q.5.041 (poco più di mezzo ettaro) arabile in due giorni da una coppia di buoi aggiogati (bina iugera).

E questa, secondo le fonti, fu la quantità di terreno assegnata a ciascun colono romano giunto a Terracina.

Bina iugera. “
C’era una circostanza, che spiega il radicamento della tradizione dei bina iugera  nei gromatici e in Varrone nella quale si aveva effettivamente un’assegnazione egualitaria della terra: nella fase più antica della colonizzazione romana è attestata un’assegnazione di due iugeri di terra ai coloni. ‘E il caso dei coloni di Terracina nel 329 a.C. Roma, cioè, veniva ripensata dai gromatici nei termini di una fondazione coloniale.” (A. Marconi)
L’assegnazione di Terracina diventa punto di riferimento per quelle seguenti, tanto da essere portata come esempio nella miniatura (Igino Gromatico) sul manoscritto “P” del Vaticano. (F. 2)

Tracce attuali della centuriazione. 
Sembra quasi incredibile che, dopo 23 secoli, con tutte le trasformazioni avvenute in termini di proprietà fondiaria, avvicendamenti di colture, regimazione delle acque, abusi edilizi, cambiamenti di destinazione d’uso dei suoli, nuovi tracciati di strade, ferrovia, gasdotti ed elettrodotti….le tracce dell’antica centuriazione siano ancora chiaramente intuibili (soprattutto dall’alto) attraverso i percorsi odierni (magari asfaltati) che in gran parte ricalcano il reticolo di strade e stradelli di servizio di origine romana. (F. 3)

Due iugeri non bastavano per vivere.
L’insistenza degli autori antiche sull’assegnazione “rituale” di soli due iugeri a colono non deve indurci in errore. Due iugeri costituivano l’ heredium (l’appezzamento trasmissibile agli eredi) o, se preferite la “sors” (il terreno sorteggiato con i dadi e con-diviso dalla con-sorte), ma non escludevano l’uso di altro terreno comune (sottoposto a regime giuridico diverso) e tuttavia presente su un territorio molto più vasto di quello assegnato in proprietà, v. foto aerea del 1944. (F. 4)

Ville rustiche e latifondi.
Ai limiti della centuriazione, ad iniziare dalla fine del III secolo a. C., cominciarono a sorgere ville rustiche per praticarvi con profitto la monocoltura della vite: il vino era destinato al mercato romano. Scarse sono le tracce degli antichi locali adibiti ad abitazione o servizi, ma i potenti terrazzamenti in opera poligonale su cui sorsero sono lì a testimoniare la consistenza di quegli insediamenti veri e propri “pagi”, come al “Monticchio”. (F. 5) 

Mano d’opera mista: servile e libera. Le ville rustiche implicavano una produzione orientata alla commercializzazione dei prodotti (olio e soprattutto vino, nel nostro caso) e l’impiego di mano d’opera servile. Quest’ultima, però, doveva essere integrata, al tempo della raccolta, dall’opera di lavoratori salariati di condizione libera. ‘E stato calcolato che per la semplice sopravvivenza bastavano al colono 120 giornate lavorative annue nel suo heredium, così ne poteva impiegare oltre 70 come salariato presso una fattoria come quella che si trovava a “Salissano”. Oggi restano in piedi solo i terrapieni. (F. 6) 

Sacralità dei confini. Secondo un’antica tradizione, riferita da Dolabella, Silvanus  (Servans, in etrusco), dio dei boschi, era stato il primo a collocare una pietra di confine, dando sacralità ai termini che segnavano la proprietà. Pertanto, non sorprende l’interpretazione di P. Longo che fa risalire all’epoca della centuriazione ed attribuisce a Silvano l’altare rupestre che si trova a Campolungo , in fondo alla Valle. (Disegno di P. Pernarella). (F. 7) 

Il Santuario della dea Feronia era sito all’imbocco della Valle, sulla destra, per chi proveniva da Roma: proprio a ridosso del decumano massimo. Feronia era divinità proteiforme: ninfa e dea, creatura infernale e terrestre, signora delle acque, delle fiere e dei boschi, vergine e fertile madre….
Nel suo santuario di Terracina c’era un sedile destinato alla
“manumissio”: gli schiavi benemeriti vi si sedevano e si rialzavano liberi. BENE MERITI SERVI SEDEANT  SURGAT LIBERI. Il disegno di P. Pernarella ritrae la situazione attuale del luogo, la testa marmorea, qui rinvenuta e conservata nel civico museo, rappresenta la dea. (F. 8) 

Una villa del I secolo a.C. Sul fianco orientale di Monte Leano, tra Feronia e La Fiora, si trovano i resti di una villa romana in “opus incertum”. Il piano terra è costituito da cisterne, ma un braccio con contrafforti esterni rivela la presenza di criptoportici finestrati. Tra piano superiore e piano terra c’era un pavimento ligneo di cui si vedono sui muri i fori di incasso per la trabeazione. Tracce di antichi terrazzamenti testimoniano la destinazione a coltura delle pendici montane. (F. 9) 

Gli uliveti dello “Scosso”. Oggi le pendici di Monte Leano sono occupate da un grande uliveto che costituisce, dal punto paesaggistico, un magnifico colpo d’occhio. In epoca romana costituì già l’ulivo, anche per Terracina, oggetto di monocoltura, magari collegato alle attività agricole della villa? Le fonti documentarie tacciono a tale proposito, mentre pongono l’accento sulla coltivazione della vite. (F. 10) 

La vite, l’uva ed il vino. I vigneti, che si trovavano fuori della zona della Valle, erano in genere snobbati dai vignaioli terracinesi d’anteguerra. Questa zona, poi, la chiamavano “Polo Nord”, alludendo al sole che giungeva a riscaldarla soltanto in tarda mattinata. ‘E un dato di fatto, comunque, che oggi i vigneti della Valle sono quasi del tutto scomparsi ed i più belli sopravvivono qui e nella zona più interna chiamata Fiora Alta.  (F.11) 

I vigneti della Valle. Per avere un’idea degli impianti viticoli della Valle, così come erano fino all’immediato dopoguerra, quando ancora la fillossera non aveva ancora terminato il suo ciclo distruttivo, dobbiamo ricorrere ad una foto di sessanta anni fa.(F.12). Allora il vitigno nativo non era stato sostituito dal portainnesto di vite americana ed il sapore, il profumo, la grandezza dei grappoli e degli acini rendeva famosa Terracina. La ricchezza dei contadini si misurava allora….a pezze di vigneto.

Cosa era una “pezza” di vigna?

L’impianto classico di un vigneto della Valle, quando ancora si zappava a mano, era impostato su filari larghi alternativamente cm. 70 e 130. Considerando che le viti sui filari erano piantate alla distanza di un metro, la pezza corrispondeva a 1000 piante. L’unità locale di misura era equivalente, perciò, a poco più di mille metri quadri coltivati (un decimo di ettaro, un quarto di heredium, la metà di uno iugero, se si preferisce usare le antiche misure romane). Si noti che le tare (vialetti, tettoie, pozzi e fossi di drenaggio) erano escluse dal conteggio. 

L’uva di duemila anni fa. Dice Plinio il Vecchio, a proposito di uva; “Vennunculam inter optime deflorescentes et ollis aptimam Campani malunt surculam vocare, alii scapulam , Terracina numisianam, nullas vires proprias abentem, sed totam perinde ac solum valeat….”  
La “vennuncula”, specie tra quelle che meglio attecchiscono ed il cui vino è molto adatto da conservare nei dolii i Campani preferiscono chiamarla “sorcola”, altri "scapola", a Terracina la chiamano “numisiana”. Non ha caratteristiche proprie: esse dipendono quasi esclusivamente dalla qualità del terreno. 

Adatta ai dolii
. Allora non è un caso che tanti recipienti, che i romani chiamavano dolia, siano stati recuperati nel mare antistante Terracina!(F. 13). 
Un dolium medio conteneva circa 2.000 litri, equivalente ad oltre 60 grosse anfore. 

Il moscato di Terracina. Anche i vitigni hanno subito nei secoli selezioni, sostituzioni ed adattamenti alle richieste di mercato. La diffusione del moscato di Terracina, uva da tavola apprezzata sui mercati della capitale, fu resa possibile dall’evoluzione dei trasporti ed in particolare del treno (a partire dal 1892), capace di garantire l’arrivo a Roma in poche ore (provate invece ad immaginare un carico di uva, spedita da Terracina duemila anni fa, quando sarebbe arrivata a Roma dopo lo sballottatamento di tre giorni sulle pietre dell’antica Appia!). Peccato che questa magnifica uva diventi ogni giorno più rara. (F. 14)

 Le colture intensive della Valle.

 Dicevamo che le monocolture di prodotti destinati alla commercializzazione fu praticato solo nei latifondi, ai limiti del territorio centuriato. Non escludiamo che la vite ed alcuni alberi da frutto furono coltivati anche nei piccoli appezzamenti, ma i frutti erano destinati ad uso famigliare, proprio come le culture erbacee. Facciamo qui un elenco di quello che si coltivava nella Valle 23 secoli fa. 
Colture erbacee: Farro, orzo, cavoli, fave, ceci, piselli, cicerchie, agli,cipolle.
Colture arboree: Fichi, mandorli, noci, sorbi, meli, peri e, solo a partire dal primo secolo, albicocchi e peschi.

                                       Alcune curiosità su alcuni frutti.
-         
L’albicocco porta questo nome perché conobbe una grande diffusione in Italia dopo l’occupazione araba della Sicilia. Al bicoc è parola araba, ma a Terracina si chiama  percoca, dal latino mala precox, vale a dire: frutto precoce. ‘E, infatti, il primo frutto a maturare ed era gia stato importato dall’oriente dai romani nel primo secolo.

-         
L’arancio. Anche il nome di questo frutto è nome arabo: al aranca. Diffuso prima nella Spagna meridionale, Portogallo e, quindi, in Sicilia dagli stessi Arabi. Proveniva dalla Cina. Ma nel nostro dialetto il nome bortegall rivela che l’albero, già prima che la portassero gli Arabi in Italia, era stato prelevato direttamente dal Portogallo. 

-          Il pesco. Le pesche conobbero grande notorietà a Roma verso la metà del primo secolo, quando fu importata la coltivazione, il frutto proveniente dalla Persia si chiamò: Mala persica. Si noti come il nome dialettale rammenti la sua origine: persica, appunto. ‘E ancora Plinio nella sua Naturalis historia a raccontarci che la coltivazione di  questo frutto era  difficile, data la sua sensibilità alle malattie. Per renderlo più resistente egli suggerisce un metodo: “innestarlo sul mandorlo come si praticava già a Terracina “  

-          Il mandorlo. Probabilmente Plinio suggerisce di usare come portainnesto il mandorlo nella varietà amara (Amidalus communis), molto diffusa a Terracina.
Le enciclopedie di botanica riportano: “L’albero è diffuso allo stato spontaneo dal  Mediterraneo al Pamir. In Italia è autoctono nelle Puglie e nei dintorni di Terracina. L’albero si presenta in due varietà, non distinte nella forma, l’una produce mandorle amare, ma  l’altra, dopo millenaria domesticazione, mandorle dolci. I Greci diffusero la specie dolce in Sicilia, intorno al VI, V sec. a, C. La varietà amara può essere pericolosa per l’uomo, data l’alta concentrazione di acido cianidrico.                                                                

                                        Clicca qui per tornare al menù precedente

 

 

Clicca sulle foto per ingrandirle

Foto 1


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Foto 2



Foto 3

 


Foto 4

 


Foto 5

 

 


Foto 6

 


Foto 7

 

 


Foto 8

 


Foto 9


Foto 10


Foto 11


Foto 12

 

 

 

 

 

 

 


Foto 13

 


Foto 14